
"...Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava dalla quale siete stati estratti..." (Is. 51,1)
E' più che risaputa la proverbiale propensione del'uomo ad adattarsi (o abituarsi) proprio a tutto... anche alle meraviglie di Dio! Proprio chi ha fatto molti anni di cammino nella vita dello spirito, anche nella Comunità Maria, può confermare quanto sia difficile stupirsi di fronte alle potenti manifestazioni di Dio, e quanta fatica costi accogliere il dono di Dio anche se è sempre nuovo...
Fratelli che, agli inizi della conversione, erano letteralmente infiammati dalle cose di Dio, della sua Parola, sempre disponibili ad accogliere i fratelli mettendosi al loro servizio e posseduti da quel bramoso desiderio di portare l'annuncio di salvezza a quanti più possibile... perché Cristo fosse tutto in tutti, sperimentano col tempo l'"usura" della perseveranza nell'impegno preso e la difficoltà nell'essere fedeli a Cristo anche nelle cose più piccole. Come se una forma sottile ma ineluttabile di miopia spirituale costringa la nostra ottica ad una visione ristretta su sé stessi e i propri bisogni...
E' probabilmente per questo che il Signore, nell'incontro regionale che la Comunità Maria della Sicilia, ha vissuto dal 16 al 18 novembre, come consuetudine a Brolo, ha donato una profezia che è un invito profondo a fare revisione di vita e che si condensa nei versetti iniziali del cap. 51 del profeta Isaia: "...Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava dalla quale siete stati estratti..." (Is. 51,1).
Ed è proprio nella giornata di sabato che il filo del discorso ispirato dal Signore si fa sempre più chiaro. La preghiera inizia con le consuete stanchezze e difficoltà mentre il Signore, per bocca dei fratelli, annuncia... il banchetto nuziale! Ci parla attraverso la festa del "vitello grasso" per il ritorno del figliol prodigo, poi ancora attraverso il banchetto preconizzato da Isaia: "Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte per tutti i popoli un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà la lacrime su ogni volto..." (Is. 25,6-8).
Gli interventi successivi riprendono un aspetto a volte trascurato della parabola del figliol prodigo. Non c’è soltanto lui che torna pentito di aver dilapidato la grazia di Dio e la vita stessa, c'è anche il fratello maggiore che non si è mai allontanato dalla casa paterna e che pur vivendo costantemente esaudendo i desideri del padre (tradotto, per noi: assolvendo ai propri doveri, al proprio incarico o ministero nella Chiesa o nella comunità) rivela un cuore indurito, incapace di vivere l'amore del Padre, schematizzato in un ritualismo di facciata. Quando viene “sollecitato” dai rumori dei preparativi per la festa, cade preda della gelosia, punta i piedi e si rifiuta di partecipare al banchetto preparato del padre... E' indubbio - viene spiegato - che non si può partecipare al banchetto "delle carni grasse" se prima lo stomaco non è “pronto” a ricevere queste leccornìe... senza che queste provochino indigesti!... Urge, sì, la guarigione del figliol prodigo ormai abituato alle ghiande che anche i porci rifiutavano, ma urge, altresì, la guarigione del fratello maggiore che si muove come un servo nella casa paterna e non come un figlio che partecipa della vita del padre...
E' soltanto “guarendo” nel nostro modo di vivere la paternità di Dio che possiamo donarci a Lui... E ritornano così, con una nuova comprensione, le “ostiche” parole di Gesù che nel Vangelo ammonisce: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché larga e spaziosa è la porta che conduce alla rovina…” (Mt. 7,13-14). Qual è la nostra porta stretta? Quella per cui ogni giorno dobbiamo rinnovare lo sforzo per entrare come se fossimo eternamente all’inizio del cammino? E’ proprio quell’atto di fede della mente, del cuore, dell’anima e di tutte le forze e risorse di ognuno di noi nel porsi, ogni giorno, davanti a Dio… come se fosse la prima volta… come se non l’avessimo mai conosciuto. Ogni volta che il mio cuore incontra quello di Dio debbo essere pronto ad accettare tutto e… il contrario di tutto… pronto alla novità, alla sorpresa, pronto a riscoprire e rivivere il modo unico e quasi inenarrabile in cui Dio mi è Padre. Vivere tutto ciò mi fa “scontrare” inevitabilmente con me stesso, con le abitudini anche del mio “io” spirituale che rimangono sempre inquinate da quel peccato d’origine che tenta di farmi apparire “angelo di luce” mentre in realtà rimango “un lupo rapace”.
Chi si avvicina al Signore deve abbandonare il male” tuona San Paolo. E il Signore, attraverso Giorgio ha nuovamente rinnovato l’invito a ciascuno a riconoscere le realtà che lo separano da Dio e gli impediscono di vivere la guarigione del senso di partenità e di appartenenza a Dio. Si tratta del modo in cui viviamo in modo dissociato la vita cristiana. Oppure della ricerca non di Dio ma delle gratificazioni che tendiamo a pretendere sia da Dio che dai fratelli, oppure bisogna rinunciare all’orgoglio che ci insuperbisce e ci fra disprezzare gli altri, oppure è l’egoismo che ci fa appropriare anche dei doni di Dio, o ancora il mancato dominio di sé che porta alle fazioni, contese, all’ira, oppure all’impurità, all’accidia.
Non abbiamo scelta se vogliamo continuare a vivere e camminare nel grembo della Comunità Maria: dobbiamo lasciare che il Signore trasformi la nostra mentalità “con un completo rinnovamento della nostra mente” (Rm. 12,1). Dobbiamo trasformare la nostra vita in vita di preghiera, non solo quella comunitaria, ma trovando in vari momenti della nostra giornata quelle occasioni di incontro con Cristo, aiutati anche dalla Vergine Santa attraverso il Rosario. Dobbiamo, in tutto ciò, accogliere “il dono di Dio” che non conosciamo e che se conoscessimo “chiederemmo continuamente al Signore” e questo dono diverrebbe in noi “fonte zampillante per la vita eterna”.
La relazione di don Tanino Tripodo è uscita in parte dai soliti schemi aprendosi poi ad una sorta di dibattito in cui ha risposto agli interventi dei fratelli.
Si è iniziato facendo un’inquadratura del momento storico in cui si situa il lungo capitolo 51 di Isaia che enuncia il tema del convegno. Siamo nel 538 a.C. periodo in cui il re persiano Ciro consentì al popolo ebraico di tornare in patria mettendo fine alla deportazione in Babilonia durata settanta lunghi anni. E’ soltanto un piccolo resto (circa 15.000 persone) che ritorna in Israele con il cuore gravido di un misto di sentimenti di speranza e di incertezza pensando all’immane opera della ricostruzione del paese.
La sofferenza della deportazione ha purificato Israele e il suo rapporto con Dio e Dio muovendosi a compassione, attraverso il profeta, invita il popolo ad ascoltarLo donando parole di grande consolazione e invitando gli israeliti a FARE MEMORIA. A riscoprire chi erano e da dove venivano. E’ questo il senso dell’invito a “guardare alla roccia da cui siamo stati tagliati”.
Per noi cristiani la roccia è Cristo, è il nostro Battesimo. Noi facciamo memoria dell’origine della nostra vita spirituale nell’Eucaristia. Acquista così una nuova importanza l’esigenza di “guarire” anche la nostra “memoria” davanti a Gesù Eucaristia che illumina il nostro passato, le ferite, le tenebre che condizionano la nostra vita; che fa verità su noi stessi dissolvendo le paure. Anche San Paolo conferma tutto ciò quando dice: “La luce mostra la vera natura di tutto ciò che viene messo in chiaro; poi la luce trasforma ciò che essa illumina, e lo rende luminoso. Per questo si dice: Svègliati, tu che dormi, sorgi dai morti: e Cristo ti illuminerà”. (Ef. 5,13-14).
La cava di cui siamo estratti” non può non far pensare direttamente alla Chiesa. Dobbiamo ancor più recuperare la consapevolezza della grande grazia che ci deriva per il nostro appartenere, attraverso la Comunità, alla Chiesa. Non per niente il Concilio Vat. II definisce la Chiesa “sacramento di salvezza”.
Nella Chiesa siamo innestati con il Battesimo e dalla Chiesa siamo anche “estratti”… perché siamo proiettati nel mondo per annunciare la salvezza di Gesù e contribuire alla costruzione del Regno di Dio.
Da qui si comprende, anche, l’assoluta importanza che ogni servizio, nella Chiesa (e nella comunità) venga reso in comunione, comunione che è reale e visibile nel momento in cui la Chiesa stessa “manda” costituendo nel servizio anche semplici fedeli per i più umili compiti. E’ in questo spirito che abbiamo vissuto tutti insieme la preghiera di “mandato” con cui tutta la Comunità, nelle persone indicate dal Pastorale di Ganzirri, ha costituito i nuovi pastorali di Messina e Rometta. Si tratta di fratelli già dediti al servizio delle comunità locali in qualità di coordinatori e che adesso hanno ricevuto il pieno mandato di esercitare l’autorità e il servizio di Cristo con la pienezza della potenza di Dio.
Una parola è anche doverosa riservarla all’affetto che ci ha mostrato il vescovo emerito di Cefalù (Pa), mons. Francesco Sgalambro, che ha accolto con gioia l’invito a partecipare al convegno e a presiedere la S. Messa. Ci ha colpito per la semplicità d’esposizione dei suoi concetti spirituali (pur possedendo una corposa laurea in filosofia) e con un pizzico d’ironia ha fatto anche una salutare autocritica. Come, per esempio, parlandoci dell’aneddoto dell’orologio. “Nei miei decenni di sacerdozio (e vescovato) – ha spiegato il presule – ho sempre vissuto i vari incontri ecclesiali, a tutti i livelli, soffrendo l’atteggiamento di molti organizzatori (soprattutto sacerdoti) che vivevano con… la sindrome dell’orologio! Il tempo della preghiera con i minuti contati… e più breve è, meglio è! In mezzo a voi, cari fratelli, ho vissuto veramente la libertà data a Dio di decidere Lui il tempo necessario affinché la Sua Parola possa far breccia e radicarsi nei cuori. Non ha importanza, quindi, se si tratta di due ore o più… Grazie per quanto mi avete donato! Venendo al vostro incontro mi immaginavo di essere, in quanto suo rappresentante, il Signore che chiamava Zaccheo (la comunità) dall’albero invitandolo a scendere perché veniva a casa sua… Mi sbagliavo! Mi sono riscoperto io stesso Zaccheo e il Signore dolcemente mi invitava a scendere dall’albero perché voleva venire a casa mia… nel mio cuore!”… Naturalmente abbiamo invitato fin d’ora mons. Sgalambro a donarci ulteriormente la sua presenza anche all’ incontro del prossimo anno…
Com’è consuetudine anche quest’anno il ministero Canti della Comunità e i tanti giovani (e non) hanno realizzato una sacra rappresentazione, un musical intitolato “Il sogno di Giuseppe”. Il protagonista è Giuseppe, uno dei dodici figli di Giacobbe, ben lontano nel tempo e nella storia da Giuseppe, lo sposo di Maria.
Giuseppe è un ragazzo che “sta con Dio”. Egli vive i momenti e le vicende della sua vita così come si presentano. Non cede alla tentazione della ribellione, del giustizialismo, della vendetta ma va… va dove la vita e Dio lo portano. Sicuramente i fatti dolorosi della vita di Giuseppe non sono la volontà di Dio (perché Dio non può mai pensare un progetto di male o di dolore) ma certamente il Signore può prendere la vita, i fatti dell’uomo e trasformarli in un progetto di bene così come il vasaio modella la creta. Giuseppe quindi, anche con i suoi momenti di debolezza, sta con Dio, rimane mano nella mano con Lui nel cammino della vita.
Giuseppe è un uomo dal cuore aperto ai fratelli. Il nostro protagonista viene tradito gravemente dai suoi fratelli di sangue. Avrebbe potuto chiudere il suo cuore per sempre e aspettare il momento opportuno per vendicarsi del male ricevuto. Ne ha avuto l’occasione ma alla fine del suo travaglio lui ha scelto di rimanere dalla parte di Dio, accogliendo i suoi fratelli ed aiutandoli nella difficoltà. Qualcuno disse che il perdono è l’atto che più ci fa somigliare a Dio e Giuseppe è un esempio forte per noi.
Infine, Giuseppe è un uomo fedele ai precetti di Dio.
Nella sua vita si presenta l’occasione di avere una donna che cerca di sedurlo ma lui la respinge perché non gli appartiene ma è di un altro uomo. In questa società che vuole annacquare sempre più il senso del peccato cercando di portare l’uomo nel vuoto, l’esempio di Giuseppe ci scuote per farci vedere a che punto siamo in termini di coerenza con ciò che professiamo.